Era l’86/87 (gli anni li conto come i campionati di calcio…), avevo 25 anni e poche preoccupazioni. Lavoravo in fabbrica e facevo i turni, incluso la notte. Il sabato mattina, si giocava il torneo di calcio e quando ciò accadeva dopo una notte di lavoro, mi fermavo in un piazzale lì vicino, a riposare un po’ in macchina.
Quel sabato di primavera c’era la finale, dove arrivammo anche grazie al fatto che io ero stato il capocannoniere della squadra con undici reti in dodici partite. Mancino e ambidestro all’occorrenza, come giocatore ero mediocre ma astuto e opportunista sotto porta.
Il terreno era in buone condizioni e sugli spalti “gremiti” c’era, come consuetudine, mio padre. Noi entrammo negli spogliatoi ma eravamo più silenziosi del solito, gli avversari invece giunsero al campo con la spocchia dei favoriti: paste, spumante e la vittoria già in tasca.
Dopo un primo tempo in cui tenemmo botta grazie all’organizzazione, rientrammo negli spogliatoi e i più anziani, come di consueto, si fumarono la consueta sigaretta. Il mister (dall’ecclesiastico cognome di Cristeleison, ovvero benedetto dal Signore), ad ogni intervallo, era solito fare – manco a dirlo – la predica. Quella volta invece parlò poco e disse, con tutto il suo fervore religioso: “Ragazzi, state andando bene, continuate così che gli rompete il culo!”. Non era importante che fosse vero, ma era importante che in quel momento noi ci credessimo.
Tornati in campo, col passare dei minuti, le nostre forze iniziarono a vacillare sotto i colpi dell’avversario e la linea di difesa arretrò fino al limite dell’area. Mancavano tre minuti alla fine, quando, da un anticipo della difesa, scaturì un passaggio al regista della nostra squadra, che innescò il più classico dei contropiedi. Lui fermò il pallone e in un attimo lanciò in diagonale, nell’unica zona dove un attaccante si doveva trovare in quel momento. E io lì mi trovai.
Un attimo prima, mentre lui riceveva, gli andai incontro ma poi, improvvisamente, cambiai direzione, eludendo la guardia del difensore che mi marcava e mi diressi dal lato opposto. Non lo stavo più guardando, ma sentii il rumore dell’impatto della sua scarpa sul pallone e accelerai verso quell’unico punto dove uno come lui l’avrebbe dovuta mettere. E laggiù la mise.
Correndo a perdifiato sentivo annaspare il difensore alle mie spalle, mentre i metri di corsa che mi separavano dal punto dove il pallone si sarebbe appoggiato, non finivano mai. Corsi ancora, col cuore in gola e fu in quell’attimo che, dalla tribuna, sentii la voce di mio padre che gridava e mi diceva di andare. In quel “vaiii!” c’era quell’incoraggiamento che non mi aveva mai fatto, forse per insicurezza o timidezza e che io avrei sempre voluto sentirmi dire.
Il pallone scese morbido dal mio lato destro; nel mentre io mi allargai ancora un po’ verso sinistra, per attirare il portiere, il quale, con tempismo, mi aveva chiuso lo specchio della porta. Non rimaneva che scavalcarlo. Incrociai il calcio con l’interno sinistro – nell’ultimo istante utile per colpire la palla – innescando la parabola.
Sbilanciato, iniziai a cadere guardando la sfera (…ancora di cuoio), prima alzarsi e poi scendere – interminabilmente – per accarezzare il “sette” dal lato opposto della porta. Palo-rete: uno a zero e campioni. Fui travolto dai compagni e – con gli occhi pieni di lacrime, che anche un gol in periferia può provocare – sentii un emozione unica, che mi scolpì, per sempre, quel grido di mio padre nel cuore.
A mio padre