La mia frequentazione della Cina, è stata un esperienza vissuta tra la prigione dorata degli alberghi a quattro stelle, l’autobus aziendale e il luogo di lavoro. Quest’ultimo, per fortuna, né forzato, né pesante.
Quando sei dall’altra parte del mondo, la stanchezza, dovuta al jet lag, è cronica e ci vogliono alcune settimane per smaltirla, tanto che io assorbo il fuso quando ormai è ora di tornare a casa.
La mattina, ci si doveva alzare alle sei, quindi mi ero imposto degli orari regolari, in modo da non crollare di sonno sul lavoro; la sera si rientrava tardi, giusto in tempo per la cena, un paio di sigarette, la video chiamata con casa e un po’ di internet.
Non parlerò dei diritti civili non rispettati, perché non ho, per fortuna, provato quello che in qui in Cina è, invece, normale per i dissidenti e per i tibetani.
Mi limiterò a benedire l’esistenza delle VPN, perché, il fatto che la censura ti tocchi, non appena cerchi di accedere a internet, già ti fa sentire privato delle libertà.
Non è certo un caso, che frequenti e improvvise siano le incursioni delle cameriere nella stanza, mentre sei dentro. Fuori, le telecamere sono in ogni dove, nell’hotel, per le strade, in qualsiasi locale o spazio aperto e chiuso. Altro che privacy!
Coerentemente con la mia filosofia – per la quale viaggiare per lavoro non è turismo – ho finito, quindi, per guardare la Cina dal buco della serratura, sentendone comunque – distintamente – i rumori e l’odore. Vorrei dire, la puzza.
La mia visuale si è limitata alle aree industriali. Cito in ordine sparso: Shanghai, Pechino, Hangzhou, Dalian, Chongquing, Harbin, Changsha e qualche altra di cui non ricordo l’impossibile nome.
Nelle metropoli cinesi non ci si perde mai: nel senso, che sembra di essere sempre nello stesso posto, nella stessa città, nello stesso quartiere e nella stessa via. Tutto è uguale a se stesso e inespressivo.
Nel fine settimana uscivo pochissimo: per pigrizia e perché era un problema anche mangiare: non sopportavo proprio che quando indicavo il big mac sul tabellone del Mc Donald, la commessa continuasse a guardare inebetita la punta del dito, senza capire quello che volevo. Dalle mie frequentazioni gastronomiche, si evince, tra l’altro, che detesto la cucina cinese.
Un altro problema erano i taxi, che con i cessi, sono sempre uno dei biglietti da visita di un paese o di una città: in Cina, li boccio entrambi.
I taxi, dicevo, ti portano dove vogliono loro, perché osservano una rigida suddivisione delle aree, all’interno della medesima città e si rifiutano di portarti fuori zona, solo qualche chilometro più in là. Questo causa discussioni (si fa per dire, data l’incomprensione reciproca) infinite.
Prima di chiamare il taxi, ci si procura dei bigliettini fatti dall’albergo, con su scritto l’albergo e le varie destinazioni in cinese. Il problema, non è tanto quello che il tassista non conosca la destinazione, ma quello che non comprenda ciò che c’è scritto e non si sogni nemmeno di chiedere informazioni (cosa che un cinese non fa quasi mai, perché lui è un cinese).
Comunque, il più delle volte, durante il viaggio, egli continuerà a rigirare il misterioso foglietto, con l’espressione interdetta di chi non ha capito un cazzo di cosa ci sia scritto. Sicché ne abbiamo dedotto che il “semianalfabetismo” sia ancora molto diffuso.
Stiamo parlando di aree metropolitane da decine di milioni di abitanti, dove si vive col mal di gola cronico (il tumore arriverà più tardi) e dove è impressionante il fatto, che le vetture incolonnate nel traffico congestionato e caotico, siano quasi tutte di lusso: grosse berline e fuori strada urbani.
Di contorno a questo, se non bastasse, ci sono foreste di grattacieli disabitati, che la sera diventano quartieri spettrali e ci si domanda chi li abiterà mai.
Il boom edilizio ha probabilmente già superato il culmine, saturando l’atmosfera con la polvere dei cantieri, che si aggiunge all’inquinamento dei gas di scarico e delle centrali a carbone – ne ho vista, addirittura, una fagocitata dentro la città stessa – e si ha quindi l’impressione, che il volano delle costruzioni, sia tenuto in movimento per favorire la speculazione (paga lo stato e incassano gli imprenditori edili), da un lato, e l’occupazione, dall’altro.
Il popolo cinese – dai mandarini al comunismo – ha sempre avuto chi pensava per lui; è un popolo che, come un animale tenuto in cattività, non è possibile rendere libero, perché sarebbe pericoloso per se e per gli altri.
Per questo, il governo cinese è ossessionato dal controllo della massa, quindi: prima deve dare da mangiare a tutti, poi, deve dare la possibilità di arricchirsi alla classe dirigente e alla media borghesia, per tenere tutti buoni.
La conversione al capitalismo-comunista cinese viene dalla necessità di nutrire un popolo molto numeroso, ma talmente appiattito nelle motivazioni, da non essere capace dell’autonomia alimentare, pur avendo a disposizione un estensione di terreno impressionante.
Osservando tutto sto denaro che gira ci si chiede: va be’ l’economia che tira, ma questi qua, stampano i soldi come fossero caramelle? Boh…
Visti il modo e i risultati, pare che la Cina abbia applicato la massima del Principe, secondo la quale “il fine giustifica i mezzi”. Se poi, la conseguenza sarà una società senza altro valore che il denaro, con un futuro di condanna a morte del pianeta, poco importa.
Un altra conseguenza, sono le famiglie povere smembrate per seguire il lavoro ed avere in cambio di una ciotola di riso, senza diritti, ne orari. E non mi si facciano paragoni col nostro sgangherato paese o con le distorsioni dell’occidente, che proprio sarebbero fuori luogo.
Tra l’altro, con tutto l’inquinamento prodotto, si sono dati una bella martellata sui coglioni, relativamente all’alimentazione. I colleghi cinesi ci chiedono di portare loro il latte in polvere per i bimbi, perché non si fidano del prodotto nazionale e quello importato – venduto nei supermercati – è carissimo.
Fanno impressione i volti di questa gente: operai, commesse, autisti, cameriere, ecc., i cui sguardi sono persi nel vuoto. Spesso ne ho visti, in fabbrica da noi, che, finita la loro mansione, si sedevano uno di fianco l’altro immobili senza parlare e con lo sguardo fisso, perché, probabilmente, qualcuno glielo ha insegnato, forse fin dalla scuola (di regime).
I cinesi non rispettano la coda, secondo me, non solo per maleducazione, ma perché hanno paura: di rimanere fuori, di rimanere senza o rimanere indietro. Retaggio di un educazione, dove per l’ultimo non c’è ne posto, ne pietà. Come, ad esempio, per gli storpi – buttati per terra – che popolano le strade: perché è credenza popolare, che tale condizione se la siano meritata.
Dettagli, direte voi. Significativi, rispondo io.
Come essere diversi, in un regime, che ti ha preso dal medioevo dell’imperatore e, prima di farti entrare nel suo “nuovo” mondo, si preoccupa di cancellare ogni segno del passato?
La distruzione sistematica della memoria storica, ha lo scopo, di omologare l’identità degli individui per dargli un solo sogno comune in cui credere.
Per fare questo, vengono distrutti anche piccoli simpatici quartieri dell’epopea comunista (che qua definiremmo, un bell’esempio di stratificazione storica) allo scopo di azzerare le menti e installarvi il nuovo sistema operativo: consumismo e ricchezza.
Un paese senza ricordi è un paese senza valori e senza etica, dove tutto è proibito, ma di nascosto si può fare tutto.
Allora succede, che il povero cerca di fotterti in tutti modi: come il tassista, che ritrovato il cellulare di un collega sulla vettura, ha risposto alla chiamata chiedendo il riscatto per restituirlo.
Durante la mia permanenza mi sono divertito a leggere alcune frasi di Mao, tipo:
“Da quando hanno inventato la polvere da sparo, gli uomini sono tutti uguali”,
che – a parte il sembrarmi una frase di Clint Eastwood, in un film di Sergio Leone – mi ha dato la conferma che in Cina non può esserci nulla da imparare, soprattutto se penso alla nostra Costituzione.
I cinesi comprano, copiano e rubano – idee e conoscenza – ma non imparano, perché hanno una mentalità chiusa e protezionista.
Te ne rendi conto, ad esempio, quando, uscendo da una riunione, con un accordo tra le parti – messo a verbale – hai la netta sensazione, che la vera decisione, su quello che accadrà, sarà presa tra le parti cinesi, alle tue spalle.
Un bella citazione di Mao, che condivido, però l’ho trovata:
“Un lungo cammino, inizia sempre con un piccolo passo”.
Vero, quindi il rischio è, che ‘sta volta, il percorso sarà breve e l’arresto traumatico.
Mamma mia! Credo che in Cina non mi vedranno mai 😉
Impressionante e traumatico davvero… 😀
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