Quella mattina Andrea si alzò prima. Stranamente non aveva sonno.
Nel silenzio della casa entrò in bagno; pensieroso, espletò le necessità fisiologiche, senza notare che lo specchio era vuoto.
Lesse una rivista, terminò la funzione e fece i consueti gesti del caso. Si mise di fronte allo specchio e mentre sentiva la propria sveglia suonare – di là, nella camera – si rese conto, che nessuno stava di fronte a lui nello specchio.
Sentì sciabattare, poi il cigolio della porta del bagno, che da mesi doveva riparare e vide apparire se stesso, di fronte a se stesso, dall’altra parte dello specchio.
Udì, provenire da quell’altra parte, tutti gli sgradevoli rumori che era solito emettere in quel frangente e sopportò l’inguardabile spettacolo delle funzioni fisiologiche. Fortunatamente fu esentato dagli odori.
Assistette al tutto senza muovere un muscolo, aspettando che la sveglia suonasse e finalmente lo svegliasse, per tornare nel mondo che conosceva.
Nulla. Passarono i minuti e il se stesso dall’altra parte, finita la pulizia personale ed una rasatura spettacolare, tornò di là a vestirsi.
Ad Andrea venne l’istinto di spostarsi, anch’egli nella camera da letto e guardare nello specchio enorme dell’armadio: se stesso era già pronto, agghindato di tutto punto, per la riunione che lo attendeva con tutti i papaveri dell’azienda. Gli venne il vomito, a pensare ciò che lo aspettava in quella riunione: ipocrisia, giochi di potere, cattiveria. Che schifo.
Appoggiò il naso allo specchio e poté scorgere lo srotolarsi dei rituali della famiglia: la moglie col pigiamone e i capelli pinzati alla belle-meglio sulla testa, che dava le ultime raccomandazioni ai figli, già grandi, in procinto di andare al liceo e all’università. Tutto regolare, le cose andavano bene, non era una brutta vita la sua.
Sì voltò, per capire cosa, invece, succedesse intorno a se, dal suo lato. Sostanzialmente le stesse cose. O meglio, la realtà gli appariva come se quelle scene, fossero appena accadute, come se la vita gli sfuggisse.
Visto che non si svegliava ancora, decise di vestirsi e di andare dietro a se stesso. Rivolse la parola alla moglie e fu in quell’attimo che gli prese l’angoscia, rendendosi conto che lei non lo vedeva e non lo sentiva. A dire il vero, nemmeno lui sentiva la propria voce, perché, in realtà, poteva solo ascoltare il proprio pensiero.
Col magone dentro e una difficoltà enorme a muoversi, come in quei sogni in cui si cerca di correre senza riuscirci, uscì di casa ripercorrendo i soliti luoghi. Di se stesso poté vedere solo le tracce lasciate dal proprio passaggio, inclusi i commenti della vicina di casa, che lo criticava aspramente. Era proprio una stronza, come aveva sempre intuito.
La giornata in ufficio trascorse regolarmente, tutto sommato; in questo lo aiutava l’esperienza, anche se a lui piaceva lavorare senza i capi intorno, dedicandosi alle cose pratiche e utili, invece di contribuire ad inscenare le loro pantomime.
Ovviamente non era visto da nessuno e per seguire i fatti, dovette sfruttare tutti i riflessi: dei monitor, delle finestre, delle porte e, solo verso sera, scoprì un trucco. Prese un vecchio specchietto, di quelli che non si usano più, dalla scrivania, per usarlo come lo schermo di un tablet, attraverso il quale poteva osservare l’altra realtà.
Già, quale realtà.
Tornò a casa un po’ prima di se stesso e trovò la moglie che già guardava l’orologio, sbuffando e immaginando chissà cosa, mentre invece lui sapeva, che – come le aveva già detto la sera prima – avrebbe dovuto passare dal meccanico, per non correre il rischio di rimanere a piedi lungo l’autostrada, quando la domenica, la simpatica famigliola sarebbe andata – con cane al seguito – all’outlet di Serravalle.
Ma lui non ne aveva voglia, cioè, non è, che non gli facesse piacere portarci la famiglia e spendere qualcosa (non stava male economicamente). E’, che sentiva la necessità di staccare un attimo, di non avere qualcosa d’incombente da fare, sia che fossero cose importanti, sia che fosse svago.
Avrebbe voluto essere solo, come quella volta che a trent’anni si alzò una mattina, riempì i bauletti della moto, ci fissò sopra il sacco con la tenda e partì sotto il sol leone, meta la Costa Azzurra; non via autostrada, ma dalla statale, scendendo a Dolceacqua, dietro a Ventimiglia, con l’odore della macchia mediterranea nelle narici e il riflesso turchese là in fondo, che sbucava ad ogni curva.
A quel punto accese il computer, mentre la moglie gli girava attorno senza vederlo, incazzata per il ritardo. Entrò nel blog ed iniziò a scrivere questa storia strampalata. Solo il cane, stranamente, si accucciò sotto la scrivania, come al solito.
Rivide il mare, incontrò di nuovo lo sfigato di Bologna – solitario in moto come lui – col quale passò la serata a fissare lo struscio del lungo mare, commentando tutti i culetti deliziosi che transitavano.
Poi, qualche sera dopo, salutato l’amico, arrivarono delle vicine di tenda con cui trascorse una serata a ridere e scherzare senza battere chiodo. Cazzo importava, era padrone del suo tempo.
Solo a ripensarci, Andrea si era rilassato e ricaricato, quindi poteva tornare indietro. Dalla cucina giungeva un odorino spettacolare e la moglie – che sfornellava – non aveva più i capelli tirati su, ma si era fatta un taglio sbarazzino e ora indossava un bel vestitino, semplice, ma che la valorizzava un casino.
Porca puttana! Si ricordò che se stesso non era andato dal meccanico (quella era stata una scusa, davvero), ma dal fioraio e dal gioielliere. Quello era il giorno dell’anniversario di matrimonio – i 25 anni – e i figli non erano andati a scuola: erano andati dai cugini in campagna (**), per il week end.
Tornò dalle parti di Ventimiglia e obbligò l’altro se stesso – come chi? – lo sfigato che andava al mare in moto da solo e non batteva chiodo, Cristo! Lo obbligò a prendere l’autostrada, con la scusa, che la sera in tivù, ci sarebbe stato l’esordio stagionale della Juventus, così, il pirla, imboccò l’autostrada e tornò su a manetta. Per fortuna allora non c’erano ancora i tutor e prese alla moto tutto quello che c’era.
Arrivò a casa, guardò quella cazzo di partita e, sfinito, si buttò nel letto. Fu lì che Andrea, quello del blog, fece suonare la sveglia, e fece svegliare un altro se stesso. Il suono coincise con quello del campanello della porta di casa e lui si affrettò a cliccare l’invio di questa storia.
Appena in tempo, prima che il computer iniziasse la chiusura forzata per un errore fatale di sistema, risucchiando l’Andrea scrittore di minchiate dentro ai microprocessori dell’infernale macchina informatica.
Andrea vide aprire la porta: per tutto il viaggio aveva ripensato a molti episodi della propria vita, tipo quella volta che tornò di corsa dal mare, per vedere la partita, e dopo tre mesi gli arrivò la multa a casa per l’inversione di marcia che aveva fatto a Ventimiglia, sgamato da quei figli di ‘ndrocchia della stradale (*), nascosti dietro l’albero.
Quei pensieri, però, svanirono quando vide Anna, sua moglie, alla quale porse i fiori, col bigliettino – scelto con cura – assieme allo scatolino magico dell’anello: la sorprese, perché non era da lui, facendola restare senza parole.
Non ci fu tempo, per i convenevoli, lui le aveva già infilato le mani ovunque (questo sì, era da lui) e lei sgattaiolò giusto un attimo per spegnere i fuochi, posizionare i fiori e non bruciare quei profumi culinari.
Ma lui la riacchiappò e la brandì sul bancone della cucina, mentre due flut aspettavano, sul tavolo, di riempirsi di bollicine fresche per cominciare la cena, col lume di due candele.
Riuscirono a scambiarsi i reciproci sapori dei loro corpi, senza rovesciare nemmeno un antipasto, prima di ricomporsi e sedersi a tavola, dove lui – mentre lei apriva lo scatolino – le avrebbe detto, guardandola negli occhi: “Ti amo”.
(*) Un caro saluto alla stradale: dai, no ragazzi, scherzo, no, no, l’oltraggio a pubblico ufficiale no!
(**) So di essere idiota, ma rido ancora adesso perché, ogni volta che me lo rileggo, per correggere gli errori, dico i “Cugini di Campagna“… noto gruppo pop anni ’60, credo
Nota: Camilleri, Zingaretti e Montalbano, che adoro, mi perdoneranno per la foto.
Davvero carino questo racconto! Ma lo sfigato di Bologna era Luca Carboni che stava scrivendo “mare mare”?
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Nei miei racconti si mischiano, invenzione e realtà ma pure i tratti dei personaggi tra loro. Comunque il viaggio di riferimento è lo stesso dell’altro racconto, dove però, di questo sfigato, realmente esistito, non c’era menzione.
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