La partenza, a volte, è una condizione transitoria, quel tempo sospeso tra due luoghi, dove non appartieni più ad uno, ma nemmeno all’altro. Lasci gli affetti, la casa e le tue cose. O meglio, di esse ti porti la parte eterea, lasciando, la zavorra degli incastri e dei vincoli relazionali. Ti liberi dei lacci quotidiani e di certi fardelli inutili, che gli altri ti impongono e che tu stesso poni in essere verso te stesso. Fardelli che proteggono – meglio dire, nascondono – le debolezze e le paure di ognuno. Inizia così un “viaggio” sottotraccia nella vita che conduci, dall’effetto di un setaccio che separa le cose, ma non necessariamente le buone dalle cattive; ché, forse, non esiste nemmeno una divisione tra una parte buona ed una cattiva, semplicemente si separano le influenze e le interferenze reciproche tra te e il resto. E lì, dipende.
Se il sapore che ti resta in bocca è l’amarezza, non andiamo tanto bene: come per il segnale debole dato dai valori restituiti da certi referti. Meglio la tristezza del distacco o l’incertezza dell’ignoto: diagnosi certe di un male dal quale si guarisce per tornare ad essere più forti di prima, quando si torna. L’amarezza no, ha bisogno di cure, a volte drastiche, magari delicate, per cui l’esito non è mai scontato. Il distacco funge, in questi casi, da anestetico e, per l’animo, quella partenza diventa un viaggio della speranza. La partenza è un setaccio che ha due passaggi: il primo, trattiene quello che siamo noi, ovvero il nostro modo di essere, per il quale dovremmo chiederci se riusciamo ad interpretarlo realmente nella vita quotidiana. Il secondo, invece, separa ciò che – nostro malgrado – ci condiziona nel modo di essere, privandolo – di fatto – di quello con il quale vorremmo veramente integrarlo. E qui, la domanda dovrebbe essere: dove pende la bilancia? Per rispondere, però, dovrebbe prima essere dettagliato l’antefatto di simili riflessioni, spiegando chi o cosa ci lasciamo alle spalle. Anche se, arrivare a farsi tale domanda, significa già essersi dati implicitamente la risposta. E questo non è bello.
Se l’antefatto è una relazione o, peggio, un matrimonio, si aggiungono domande ed affermazioni. “Ehi, ma chi te lo fa fare?” “Te la sei cercata.” “Non puoi continuare a scappare ogni volta che ti si presentano delle difficoltà.” “Non si può procrastinare quello che ci accade.” “Non fare pazzie, lo sai che fine fanno i padri separati.” Poi, se qualcosa di buono c’è, le cose si stemperano dopo un po’ e tu ti prepari al ritorno in quella quotidianità; come quelle squadre che non vincono mai un cazzo, ma tutti gli anni si iscrivono lo stesso al campionato, perché l’amore, a volte, è come il tifo, è senza logica e speri sempre di vincere.
Stavo per chiedere se ti riferivi a viaggi interiori, ma l’ultimo paragrafo ha chiarito tutto. Buon campionato, spero che la tua squadra si sia rafforzata.
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Ti capisco. Ti capisco moltissimo.
Troppo anche.
Ti mando una pacca di solidarietà.
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Grazie…
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