Mirafiori Lunapark, una storia di “zona”

Mirafiori Lunapark” è un film presentato al 32^ Torino Film Festival del 2014, che racconta un pezzo della storia della fabbrica, visto dal lato del quartiere, dagli occhi e dai cuori della gente comune. E’ ambientato ai giorni nostri, ma attraverso la storia e i ricordi di tre amici in pensione, apre una finestra sugli anni ’70 quando loro erano colleghi e “compagni” alla Fiat di Mirafiori. Io a Mirafiori ci vivo e ci lavoro: per questo motivo il film non poteva non lasciarmi il segno, perché mi ha fatto ritornare in quel pezzo di vita mio, della mia città e del mio quartiere, che – come si usava dire allora – veniva definito “zona”.

Essere di zona era un lasciapassare, un segno di appartenenza, i cui connotati si esasperavano tra le fasce più basse della gente. Famose o famigerate, fate voi, erano le zone Vallette, Falchera e – appunto – Mirafiori, sovrappopolate e senza servizi, quartieri dormitorio per gli operai della Fiat, ma anche per chi, di lavorare onestamente non aveva la minima intenzione e di mestiere si era inventato l’operaio sindacalizzato, l’occupante abusivo di casa e il nullatenente di professione, allo scopo di pretendere tutto come un dovuto, a prescindere. Questo mio personale punto di vista, il film – ovviamente e giustamente – non lo dice, perché non era questo il significato che l’opera prima del giovane regista Stefano Di Polito, torinese di “zona”, gli voleva dare. Per tale motivo, qui preferisco dare priorità al fatto che il film mi ha piuttosto fatto riflettere su quanto mi siano rimasti dentro l’atmosfera e lo spirito di allora, mentre crescevo senza comprendere a fondo i fatti che mi accadevano attorno e certe preoccupazioni, paure e tristezze dei miei genitori, dovute al momento storico di Torino e dell’Italia di quegli anni, cosiddetti della “crisi”, culminati col razionamento della benzina e le stragi di terrorismo.

Tenuto conto che a quell’epoca ci si identificava ancora negli ideali e nelle ideologie, lo scenario sociale semplificato era, che da una parte ci stava chi non era ricco, ce  l’aveva col padrone ed era un mangiapreti, quindi votava comunista; dall’altra ci stava il timorato di Dio che andava sempre in chiesa o il piccolo borghese, che – per proteggere il proprio piccolo benessere – votava Democrazia Cristiana. Io, manco a dirlo, appartenevo al primo gruppo.

Il dialogo con i genitori si esprimeva più a gesti che a parole. Tipo Piero, la cui mamma scese ai giardinetti mentre lui sbaciucchiava una ragazzina sulla panchina e per quello lo prese a schiaffi davanti a tutti; sempre lui, che dopo la consegna al padre di un impresentabile pagella scolastica – dove agli uno e ai due, mancavano solo le “x” della vecchia schedina del Totocalcio – venne a scuola con un occhio viola e la faccia gonfia, dicendo: “Sono scivolato dalle scale”. Ma…

Gli episodi di bullismo erano un fenomeno persino romantico al cospetto di quello odierno. Se non altro ti fermavano per strada cercando di rubarti qualcosa, col classico e minaccioso: “Esci fuori i soldi se non vuoi tagliata la faccia!” Dopo di che seguiva qualche spintone e il più delle volte si riusciva a scappare, evitando la rissa e pure il taglio della faccia. Nei casi minori, invece, ci si imbatteva nel più semplice e complessato dei “ ‘zzo ti guardi!

Quel tempo, che non esiste e non tornerà, ha riempito la vita dei tre protagonisti del film, nei quali ho riconosciuto gli stessi pensionati che ancora incontro al bar, prendendo il caffè al sabato mattina. Gli anni della fabbrica, finiti con la marcia dei 40.000 li hanno fatti soffrire, ma gli hanno pure permesso di vivere, tanto che oggi, paradossalmente, ne sentono la mancanza.

Ho voluto parlarvi di questo film, perché dopo averlo visto ed aver letto alcune recensioni, mi sono reso conto che chi non ha radici popolari oppure se le è dimenticate, cerca sempre analisi complesse e fatica a cogliere la prospettiva della vita e i sentimenti delle persone più semplici. Parlare del passato non è necessariamente nostalgia, anzi in questo caso è amore e riconoscimento delle proprie origini e dei valori appresi crescendo in quel quartiere operaio, che vedeva concludersi il periodo dello sviluppo del dopoguerra. La zona, un mondo con meno cose materiali ma egualmente “pieno”: di famiglia, di amici, di relazioni, di sogni per un domani migliore, ovvero – in poche parole – di umanità.

4 risposte a "Mirafiori Lunapark, una storia di “zona”"

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  1. Quel periodo storico, gli anni ’70 appunto, hanno marchiato a fuoco numerose “zone” o intere città della nostra penisola. La mia stessa città, Padova, ne è rimasta coinvolta, con movimenti operai, scioperi ma anche Brigate Rosse e attentati. Padova versò sangue, in un periodo di dilanianti lotte sociali. Ricordare quei tempi è giusto, magari anche solo per respirare un po’ di quella atmosfera, a maggior ragione se un film parla “proprio” di dove sei nato e vissuto.

    PS Sapevi che stavano girando il film? Ti eri accorto della troupe?

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    1. Sì lo sapevo ma non mi sono preoccupato di dove lo girassero. Poi dopo averlo visto mi sono stupito di come non me ne sia accorto! Le scene sono tra l’altro in una via secondaria. Poi le viste dei palazzi e del quartiere come quelle che vedo tutti i giorni fanno un certo effetto. Probabilmente giravano durante i festivi. E poi ho trovato straordinario come il regista sia stato capace di realizzare un film con mezzi minimali, davvero bravo. Un film di spessore legato a quello che citi è “Il sorteggio” interpretato da Beppe Fiorello e girato in “zona”. Te lo consiglio. E poi finisco… “I compagni” di Monicelli, con Mastroianni, bellissimo sull’inizio della storia sindacale, critico che anticipa i tempi, girato genericamente a Torino. Ciao

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