Cappuccino e brioche

Nel mio quartiere non ho amici, perché quelli che meritano questo appellativo, abitano tutti qua e la. L’unico posto che frequento è il bar di Tito. Che giorno, il ritorno dopo la chiusura per la pandemia, quando Tito ha allestito il banchetto sulla porta, direttamente sul marciapiede, per ricominciare da dove eravamo rimasti, con cappuccino e brioche.

Il suo bar è un luogo che definirei “pasoliniano”, perché è frequentato da antipersonaggi. Non ha più la pretesa di essere un bar, ma un ritrovo di famiglia della gente di quartiere, dei pensionati, delle badanti con e senza anziani e dei passanti occasionali che non amano la ressa e apprezzano la semplicità del posto. Tito, è quello che tiene lontani i balordi dal bar e se non gli vai non usa mezzi termini. Per questo non è simpatico a tutti. Ma, Tito è anche quello che ritira i pacchi di Amazon senza chiedere nulla in cambio. Lui è in grado di intrattenere tutti, di scherzare con tutti, tranne quando si stufa dei discorsi ripetuti troppe volte e allora rientra nella parte professionale, e da dietro al bancone resta in silenzio con leggero distacco. Come qualche inverno fa che le temperature insistevano sotto zero e tutti i santi giorni il tavolino delle pensionate si lamentava del freddo. Lui appese un cartello: “Sì, fa freddo, lo sappiamo. Non c’è più bisogno di ripeterlo.”

Di origine pugliese, con la parlata imbastardita dal torinese, è un uomo affabile e brillante, gentile e cortese, cresciuto professionalmente facendo gavetta nei bar del centro dall’età di quattordici anni. Ha rilevato il bar venti anni fa, quando io sono ritornato a Mirafiori, in un appartamento all’ultimo piano, proprio sopra di lui. All’epoca serviva ancora in camicia bianca, farfallino e gilet scuro. Le ciabatte da mare e le bermuda di oggi non se le sarebbe mai nemmeno sognate: l’altro giorno quando uno della combriccola lo sfotteva per questo, io gli ho retto la parte dicendo che lo faceva per farci sentire come al mare e avrebbe fatto mettere uno di quei teloni che simulano lo sfondo del mare di fronte al bar, per rendere l’atmosfera più realistica.

Quando era piccolo, il padre se ne andò di casa, lasciando la mamma con i quattro figli. Lui è cresciuto in centro: in uno di quegli edifici storici, dove i seminterrati, le soffitte e gli interni dei cortili nascondevano dei locali adattati ad abitazioni, magari coi bagni fuori e in comune. Tito è di quelli che ha vissuto sulla propria pelle i cartelli “non si affitta ai meridionali”.

L’abbiamo sempre detto io e lui: certamente mi aveva servito anche lui la coppa Charlot e la Banana Split, quando bazzicavo il Paradise di Via Roma e il Copa Rica di Via Cernaia con le “purille” di quell’epoca che fu. Mi ha raccontato che una volta si recò al Copa Rica di malumore ed iniziò a lavorare, facendo il suo dovere, ma col muso. Il padrone lo chiamò da parte e gli disse: “Oggi puoi tornare a casa. Torna quando stai meglio, ma – se vuoi lavorare qui – i tuoi problemi personali non devi portarteli appresso, chè ai clienti non interessano.” E lui da allora ha fatto di questo insegnamento il proprio motto professionale: fondamentale per chi fa quel mestiere.

Nel frattempo ha sgobbato e mantenuto la famiglia, con tre figlie, si è comprato i “muri” ed è diventato padrone e uomo libero, come dice lui. Nel quartiere il bar di Tito è un rituale: il gruppo delle pensionate da una parte, quello deI pensionati dall’altra. Le prime a riferire e criticare, i secondi a pontificare, dalla politica allo sport, dal populismo al vacuo più profondo.

Lì, puoi trovare Mimmo, che trascorre la giornata tra giochi enigmistici e Negroni, collezionista di tutti i modellini possibili. E Gino, storico parrucchiere per signora della zona, che ha trovato le sue risposte in diversi viaggi in India. Il primo, burbero, è capace di sbuffare se nel bar – un locale pubblico – c’è confusione, perché non riesce a concentrarsi sulle parole crociate. Il secondo disponibile a parlare di tutto, ma sempre con la visione mistica dei santoni indiani sullo sfondo.

Tito ogni tanto fa sfoggio di una cultura generale inaspettata, fatta – credo – con letture e televisione di qualità. Non ha mai avuto un computer, ma con gli smartphone se la comincia cavare, sia per il lavoro, che esplorando, con la curiosità di un ragazzino, qualsiasi argomento, anche per trovare le risposte ai cruciverba di Mimmo, che al contrario si è fermato alla penna e al calamaio.

In effetti, durante il lockdown, avevo intravisto Tito aggirarsi per il quartiere, nonostante abiti in un altra zona, ma pensavo venisse a vedere il bar. Invece, lui e Mimmo si sono messi d’accordo. Il secondo, il quale vive solo da quando gli è mancata la mamma e dimostra di non sapersi curare, sia di salute che di aspetto, gli ha chiesto di continuare a frequentare il bar dal retro, perché – dovete sapere – non si fa nemmeno da mangiare, e Vito ha accettato.

A questo proposito, anche io ho fatto dei brutti pensieri su Vito, ma un giorno, prima dell’apertura ci siamo incontrati e ho capito che era solo per amicizia e umanità. Ebbene, entrambi hanno ricevuto minacce e insulti da persone che si credono giustizieri e invece sono solo persone cattive, che hanno affisso  dei biglietti anonimi alla serranda del bar e al campanello di Mimmo. Vito li ha esposti nel bar.

A suo tempo, lui aveva provato a lavorare con la moglie, ma lei era gelosa e non sopportava la sua gentilezza (e brillantezza) con le clienti. Risultato, lei è rimasta a casa, a fare la casalinga e lui al bar si è fatto perfino il soppalco (immaginiamo per cosa), prima che i vigili glielo facessero levare, perché abusivo. Se fosse un membro del Club di Papillon, per questo raccoglierebbe il plauso dell’ala radicale del club. Tuttavia al bar da Vito di questi temi si parla poco e le conquiste non si mettono in piazza, com’è giusto che sia.

L’altro giorno passo al pomeriggio, vedo il bar con le luci spente e la porta chiusa. Nel deor Mimmo fa le parole crociate. Gli chiedo: “Dov’è?” “Non lo so, non ha aperto.” Guardo dentro. Quando lui va a pranzo abbassa una serranda sul retro e sul fronte chiude solo la porta a chiave. Tutto a posto e me ne vado. Poco dopo, Mimmo si alza, col suo incedere barcollante, e prova ad aprire. La porta, maledettamente si apre, perché non era mai stata chiusa e Vito giace, esanime, sul pavimento del retro, morto.

Vengo a saperlo il mattino seguente, incrociando il panettiere ex rocchettaro degli anni ‘80, col quale ascoltavamo quella musica tutti assieme nel deor due giorni prima. Perché non avevo provato ad aprire io? Ora, ogni volta che esco col cane, il mio cervello pensa per un istante di passare da lui, per cominciare la giornata con un sorriso o un pettegolezzo di quartiere, e sentire che mentre entro mi anticipa: “Cappuccinoooo!” Perché, dopo vent’anni, lui era l’unico amico che mi ero fatto in zona e occupava uno spazio nella mia vita relazionale – non importa se grande o piccolo – che ora è rimasto maledettamente vuoto. E sarà difficile per tutti passare lì davanti senza gridare dal marciapiede quel saluto al  volo, attraverso la porta aperta del bar: “Ciao Vito!”

Altri personaggi del bar:
L’ex maggiordomo pettegolo e impiccione come una comare, La Zingara barbona che chiede sempre La Vecchia Romagna e cerca sempre di pagarla meno, L’ambulante fidanzato con la romena, che parla solo di gnocca, La coppia gay molto distinta, dove “lei” era gelosa di Vito e L’ubriacone dignitoso, che cerca di far finta di essere uno sobrio che passa di lì per caso, facendosi un bar via l’altro.

26 risposte a "Cappuccino e brioche"

Add yours

      1. Nel mio paese c’era il tabaccaio con bar annesso e un paio di uomini cortesi, simpatici amici di tutti. Uno dopo l’altro se ne sono andati e per me sono figure di cui sento la mancanza.

        Piace a 1 persona

  1. Immagino che Vito manchi a molti.
    Uno di quei personaggi, come il medico del paese, o il giornalaio, che te li immagini sempre al loro posto, immuni ai mali della vita.
    Ed invece la campana arriva a suonare anche per loro, rendendo più povera tutta la comunità.

    Piace a 1 persona

    1. È proprio così. Adesso la piccola comunità che si era formata nel suo bar è persa. È perfino buffo il fatto che ci incontriamo per strada errabondi, non sapendo dove andare a prendere il caffè, in una zona che è piena di bar… che però non sono la nostra zona di conforto.

      Piace a 1 persona

  2. Ma che tristezza per il tuo amico, e anche fosse stato solo un conoscente sarebbe stato triste comunque. 😦
    Il racconto in generalemi ha fatto quasi pensare al Bar Sport di Stefano Benni perchè in fondo Mirafiori è un po’ come un paese; dipenderà dal fatto che non c’è molto “ricambio” e più o meno sono le stesse persone che abitano lì da sempre… o i figli che tornano come nel tuo caso.

    Piace a 1 persona

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.

Blog su WordPress.com.

Su ↑

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: