La bischerata

Capita a volte, quando gli astri si congiungono, che accadano cose uniche, come successe quella volta che Teo, il Pivello, lo Gnomo, Pepe ed io, ci ritrovammo tutti insieme durante la stessa missione di lavoro.

Il trascorrere delle giornate In fabbrica era come l’attraversamento di un tunnel, del quale ancora non si vedeva la luce al fondo, mentre cercavamo di uscire vivi dai labirinti delle reti informatiche. Mac Address in conflitto, indirizzi IP irraggiungibili, Gateway perennemente chiusi, Firewall invalicabili e Virtual LAN da decifrare: per questo, stremati, la sera ci ritrovavamo per parlare e distrarci da tutto quel casino. Purtroppo però, con i campionati di calcio fermi per l’epidemia, tutti noi felicemente (si fa per dire) sposati o fidanzati ormai cacciatori (di purille) pentiti, ci venivano sottratti due argomenti di discussione che un tempo l’avrebbero fatta da padrone. Così, le serate passavano lente con l’immancabile aperitivo al tavolino di un bar ad osservare lo struscio, che al sud è un rito mica da poco, tra ragazzine scostumate e improbabili milf sempre più aggressive. Appagato l’occhio e stimolato l’appetito, la visita in qualche trattoria selezionata, per assaporare piatti e vini tipici della zona, era il naturale epilogo del convegno. Niente di che, ma resta il fatto che, quando stiamo a Torino, chi più, chi meno, siamo soggetti agli arresti domiciliari della nostra quotidianità e questo non ci permette di frequentarci al di fuori del lavoro. Invece, in quell’occasione, raccontare le leggende dei cantieri vissuti in giro per il mondo o dare sfogo ai propri lamenti per le avversità della vita, era cosa normale.

A tutto ciò bisogna aggiungere che ogni sera andava in scena la cerimonia delle telefonate da Torino: fidanzate miciose, mogli incazzose e figli scazzati che, mentre il papà era in video chiamata, non lo degnavano di una parola, costringendolo a metter giù per non star lì a grugnire e fare la figura dell’ebete di fronte agli altri. Già perché in fondo, per quelli rimasti a casa, tutti noi che stavamo in giro per lavoro, non eravamo altro che compagni e genitori degeneri, che andavano lì per divertirsi e, sostanzialmente, se ne sbattevano si disinteressavano di loro. Per questo, le telefonate delle mogli, amiche, amanti che, durante il giorno, arrivano durante una riunione o in mezzo alle rumorose linee di produzione, non erano altro che pretesti per vedere se eri veramente al lavoro e se ti interessavi di loro e dei loro problemi, mentre, in quel momento, avevi mille altri dilemmi da risolvere. Ovviamente era perfettamente inutile cercare di spiegare che quello non era il momento giusto per buttarti addosso un problema incancrenito di coppia oppure una roba tipo l’interruttore automatico scattato (perché se accendi la lavatrice e l’aspirapolvere, può capitare), ma pure che, se la figlia aveva sbagliato autobus e non sapeva tornare a casa, poteva sempre usare il cellulare per uscire da quella situazione (già, ovvio… il cellulare serve solo per le minchiate). Come forse avrete intuito: problemi, problemi, problemi.

Insomma, in questa atmosfera da commedia alla Carlo Verdone, Teo era un pesce fuor d’acqua, un’anima in pena che si annoiava: lui che predilige il clima delle commedie dei fratelli Vanzina. Così una sera, mentre eravamo in macchina, di ritorno dalla solita cena in un paesino sulle colline, con aria malinconica, ci sussurrò: “Ragazzi, è vero, vi telefonano e vi rompono i coglioni, ma almeno non siete soli come me…” “Dai, resisti ancora qualche settimana e poi potrai tornare a calcare i campi di calcio e a giocare le tue partite galanti a casa.” Forse nemmeno mi aveva ascoltato, perché aveva già il cellulare in mano: “Ehi, Siri… riproduci orgasmo femminile…” Nell’auto ci fu un attimo di silenzio attonito prima che il suo Iphone, di ultima generazione, cominciasse a riprodurre a pieno volume i gemiti di una femmina, a dir poco assatanata.

Nella penombra intuivo la sua espressione compiaciuta, unita al suo classico mezzo sorrisino, mentre a turno avvicinava il cellulare all’orecchio di uno o a quello dell’altro. Musica per le sue orecchie e, un po’, va ammesso, anche per le nostre. Non sapevamo che dire, finché qualcuno scoppiò in una gran risata, contagiando l’intero gruppo nello stretto abitacolo. Peccato però, che pochi istanti dopo, proprio mentre stavamo attraversando il centro del paese, il sistema audio dell’auto abbia agganciato quello del telefono di Teo e che, dai finestrini abbassati, quei gemiti lascivi abbiano cominciato ad invadere i dehors dei bar, in quel momento affollati di gente, incurante del distanziamento sociale, lungo tutta la via.

Il bastardo, che si era già accasciato sotto i sedili posteriori per non farsi vedere e si stava sganasciando dalle risate: l’aveva preparata apposta, la bischerata. In seguito al trambusto che ne seguì, io – che guidavo – a momenti vado a sbattere contro le auto in sosta, nel tentativo maldestro di azzerare il volume, su un auto a noleggio della quale non ero ancora padrone dei comandi, mentre lo Gnomo, che aveva appena composto il numero di casa, quasi lancia il suo telefono dal finestrino in preda al panico, purché la figlia non sentisse quella roba. Pepe, freddo e cinico, come suo costume, fu quello che la gestì nel modo migliore, raccontando seraficamente alla moglie dell’improbabile incidente di una donna investita per strada che gemeva per il dolore.

Quando ritornò la calma e ci ritrovammo sul marciapiede, ci voltammo in cerca di Teo, con l’intento di fargliela pagare, ma ovviamente di quel gran bischero, ormai non c’era più traccia!

15 risposte a "La bischerata"

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