Il castello di sabbia

C’era una volta…

IL PROLOGO

Ho un nuovo datore di lavoro e ho dei nuovi capi, francesi. Avevo la responsabilità, condivisa con il mio ufficio, di collaborare e coordinare con colleghi americani, brasiliani e cinesi le attività di standardizzazione di certe attività. Avevo imparato dagli anziani tante cose e col tempo le avevo attualizzate e migliorate. Gestivo, tramite un fornitore esterno un sito dove erano pubblicati i capitolati tecnici di fornitura per realizzare le nuove linee di produzione. Per intenderci, la parte di controllo che consente di realizzare i processi di produzione: software, elettronica, circuiti elettrici, fluidica, sicurezza di operatori e manutentori e raccolta dei dati per il controllo della efficienza delle linee, la rintracciabilità dei prodotti e la pianificazione della manutenzione delle linee di produzione. Direi non poca cosa, soprattutto se immaginata in coordinamento con i colleghi delle altre regioni del mondo.

LA STORIA

La Fiat era un azienda italiana di Torino. La Fiat, è stata artefice dello sviluppo industriale, sociale e della mobilità nel nostro paese, contribuendo alla crescita del PIL e alla creazione di posti di lavoro.

Essa rappresentava un motivo di orgoglio e di vanto per i dipendenti e a livello di organizzazione del lavoro (un po’ militaresca) era molto avanti per quei tempi. Poi il mondo è cambiato e l’azienda ha iniziato a vedere aumentare il proprio ritardo rispetto alla concorrenza. In primo luogo, per l’incapacità dei manager di rispondere, con strategie di mercato adeguate ai cambiamenti della società, alla concorrenza tedesca e giapponese, in termini di portafoglio delle vetture e dei loro contenuti.

Nonostante ciò, l’azienda ha ancora vissuto dei buoni momenti, grazie alle relazioni diplomatiche e politiche dell’Avvocato Agnelli e di Cesare Romiti: anche se tra l’opinione pubblica, andava di moda criticare sempre la Fiat, a prescindere. Cosicché, tramontata questa epoca, l’azienda ha iniziato a barcollare come mai prima. Scorpori, accorpamenti, alleanze, che non frenavano la caduta del colosso, fino all’avvento di Sergio Marchionne, voluto dall’intuizione di Umberto Agnelli, il quale inizia una riorganizzazione ed un rilancio dei marchi legati a Fiat.

In quegli anni l’immagine delle vetture del gruppo, diventato FCA, migliora grazie alle linee di prodotto della 500 e della Jeep, anche se il portafoglio rimane nel complesso molto povero, ma questa volta per l’attesa della ricerca di un nuovo partner. Purtroppo, con la morte di Marchionne, se n’è andato l’ultimo manager che, da italiano, ha amato sinceramente l’azienda che ha diretto. Venendo a mancare lui, la famiglia Agnelli, ha lasciato prevalere ciò che per un investitore è l’indicatore che comanda: il profitto e la difesa dell’investimento, con l’obiettivo, semmai, di trarne profitto, come, del resto, chiunque di noi fa per i propri interessi.

Nel passato sarebbe stato necessario, per rispondere adeguatamente alla concorrenza straniera, licenziare molte persone, ma – in Italia – la politica ed il sindacato hanno difeso l’occupazione con tecniche volte al consenso immediato, senza mai proporre una strategia di lungo termine. Questa situazione ha, a mio avviso, alimentato un lento degrado della qualità dei manager, attenti a difendere e consolidare la propria posizione personale, senza attuare alcuna idea innovativa volta al futuro.

Quello è stato il prototipo della catena di comando e di chi mi avrebbe dovuto rappresentare, che mi sono trovato nel 1988, l’anno del mio ingresso in Fiat. Non ricordo che l’aver riportato un problema, una controindicazione, un suggerimento basato su una visione del futuro, sia mai stato seriamente preso in considerazione: perché un direttore, che quasi mai conosce il lavoro che fai, non metterà mai la faccia (o il culo) al servizio di un obiettivo che dia beneficio all’azienda. Ne ho visti – piuttosto – scaricare la responsabilità dei fallimenti sui sottoposti.

Ho visto poi, giovani ingegneri e laureati arrivare convinti di fare i manager sin dal primo giorno in azienda. Ho visto sventolare i concetti descritti prima, senza mai applicarli. Ho sentito parlare di meritocrazia e valorizzazione della persona, salvo mettere in piedi un sistema di valutazione dei dipendenti che delegittima i capi diretti (quelli che sanno cosa fai e come lo fai) e premia la “visibilità” di chi sa presentare bene le slide, con grafici che dicono ciò che i superiori hanno piacere di sentire.

Un tale sistema ha finito per premiare uno solo, invece che tutti coloro che meritano, allo scopo scatenare una competizione serrata: peccato che questo, in una grande azienda, precluda alla maggior parte delle persone di avere un riconoscimento, nonostante lavorino con impegno, sotto traccia, spesso facendo il lavoro sporco, quello che appunto non si vede nelle slide.

LE CONCLUSIONI

E’ così che l’azienda, oggi parte del gruppo multinazionale Stellantis (grazie ad una eccellente azione finanziaria, preparata da Marchionne e finalizzata dalla famiglia Agnelli), è andata al cospetto del capo di PSA, Tavares: con il cappello in mano dal punto di vista industriale. In questo modo, in quasi quarant’anni, due generazioni di quelli come me, hanno vissuto la decadenza di un impero ed hanno visto una gloriosa fortezza – vanto internazionale – trasformarsi in un castello di sabbia, le cui forze – le conoscenze aziendali e la cultura industriale – si sono dissolte, portate via dalle onde assieme alla sabbia, perché i direttori sono stati incapaci di spiegare ai nuovi padroni, cosa di buono c’era nell’azienda. Ed è vomitevole ascoltare gente che proviene dalla vecchia nomenclatura – quella che ci ha quasi mandato dal culo – farmi dei corsi sulla nuova era, come se ci fosse anche della farina del nostro sacco. Sapete che vi dico: meglio così, comunque, almeno abbiamo finito di soffrire, immaginando che qualcosa del nostro lavoro ci fosse riconosciuto. Mavaffanculo, va…

3 risposte a "Il castello di sabbia"

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  1. Non posso ovviamente dire nulla, perché tu vivi la situazione da dentro ed in prima persona.

    Esprimo solo una opinione generica sul mondo dell’automobile: a mio avviso è un mercato che subirà una enorme contrazione nei prossimi decenni, perché l’automobile personale – pur sempre importante – sarà sempre meno “indispensabile”. E la visione delle città del prossimo futuro sembra che destinino sempre minore spazio alle auto private.

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