Il gatto e la volpe

LinkedIn, sappiamo, è un social le cui finalità sono orientate al mondo del lavoro, poi, giusto o sbagliato che sia, al suo interno si aprono discussioni anche su altri temi del vivere umano. Centrale, rimane comunque il lavoro: come renderlo più efficiente, come essere sempre motivati, come affrontare le difficoltà, soprattutto relazionali, e poi cercare di mettere in contatto ricerca e offerta. A questo proposito, tanti post cercano di fornire decaloghi su come fare il curriculum, come presentarsi, vestirsi, parlare, chiedere, rispondere. E poi, ancora, su come porsi, motivarsi, fino al limite di suggerire specifici stili e filosofie di vita.

Trovo che nei consigli dispensati dai suddetti post, manchi un elemento: l’umanità. Tanto che sembra volutamente occultato il richiamo al valore dell’essere intellettualmente onesti: in poche parole, essere se stessi. Come se questo fosse un segno di debolezza, che rende inadeguati a qualsiasi mansione e responsabilità. La peculiarità dell’onestà intellettuale è quella di rendere liberi. La vera antitesi della accondiscendenza servile o interessata, la differenza tra il camminare a testa alta, con la schiena diritta, per guardarsi allo specchio e vedere chi veramente siamo. L’antitesi del cosiddetto “yes man”, che ha portato e porta giornalmente le aziende alla rovina. Tutto questo, nulla ha a che vedere con le buone competenze. Ma può essere una buona premessa per guadagnarsi stima e rispetto ed essere idonei ad imparare e migliorare, perché solo se si è liberi si riesce a dare il miglior contributo alla nostra attività e al gruppo di lavoro del quale facciamo parte.

Purtroppo, come facciamo a capire se il nuovo ambiente di lavoro ci offrirà la possibilità di esprimerci? Difficile, soprattutto quando si è giovani e privi di esperienza nelle relazioni umane. Difficile anche quando si è più maturi, se la struttura che ci ospita è ingessata ed autoreferenziata. In realtà dovremmo essere noi a fare “recrueting” ad una azienda dove candidarci oppure all’azienda dove lavoriamo, per comprendere se “loro” sono in grado di gratificare la nostra personalità e le nostre ambizioni. Poi, dovremmo avere il coraggio di fare le scelte necessarie.

In generale, è positivo cercare di migliorarsi, concetto che da senso alla vita stessa: tuttavia, ciò non deve diventare una posa artificiale ed artefatta, in funzione di un calcolato interesse. Ovvero l’antitesi della passione per quello che si vuole fare. Un approccio che tende – a mio avviso – ad incentivare l’individualismo e la competitività a discapito dell’organizzazione di cui si fa parte. Una volta questo si chiamava arrivismo ed aveva un accezione negativa. Oggi è considerato un valore positivo e se non lo si sposa ci si deve sentire inadeguati. Tanto che in taluni c’è la tendenza ad assumere tale comportamento anche nei rapporti personali.

I diffusori di queste tematiche, nei vari profili, si definiscono consultant, recrueting, coach, con lauree che spaziano dall’economia, alla giurisprudenza e alla psicologia. In realtà usano il social per promuovere se stessi con lo scopo di offrire servizi e consulenze; quindi non stiamo parlando dei consigli di un amico o del buon padre di famiglia, ma parliamo nella migliore delle ipotesi di tecniche per vendersi nel mercato del lavoro.

Quindi parlano a delle “risorse” e non a delle persone, per legittimo scopo di lucro e, come a me i datori di lavoro hanno sempre raccontato, motti e parole d’ordine, loro coniano continuamente nuovi seducenti slogan e mi sembrano il Gatto e la Volpe nell’intento di circuire l’ingenuo Pinocchio. Solo che io, in questa favola, il naso lo faccio crescere a loro e non al povero burattino.

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